Dal Leucopetra Promontorium all'Haghios Nikitas Castron

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Insediamento di un territorio in riva allo stretto

Il territorio comunale di Motta San Giovanni è situato nella prima parte meridionale della provincia di Reggio Calabria subito a sud della omonima città e costituisce oggi la porta di accesso alla Calabria Greca cioè quell’area a sud della città di Reggio dove ancora sopravvive l’antica lingua greco-calabra.

Un territorio, affacciato sulle acque dello Stretto, che ha rappresentato nel corso dell’evoluzione degli eventi che hanno segnato la storia della Calabria meridionale, un luogo di strategica importanza non solo geografica, cosa scontata, ma principalmente storica e sociale.

Un territorio che tuttavia ha saputo ben conservare le tracce del suo passato, delle genti che qui si sono succedute e che hanno lasciato i loro segni materiali e immateriali nella cultura attuale e che hanno contribuito a scrivere la storia, illustre e gloriosa, del passato di questi luoghi.

I primi dati insediativi di questo territorio riguardano le aree collinari e d’altura e più specificatamente le aree lungo le aste fluviali. Infatti nel corso di alcune ricognizioni di superficie sono stati rinvenuti importanti frammenti ceramici, di cui alcuni finemente smaltati e riccamente decorati a motivo floreale che, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbero al momento un unicum nel contesto della preistoria di questo territorio e che per la loro importanza possono sicuramente contribuire a sciogliere alcuni importanti dubbi sul periodo preistorico del versante ionico della provincia reggina particolarmente variegato e complesso.

Nel corso del fluire del “tempo storico”, dati insediativi più certi e di notevole importanza che dimostrano in maniera inequivocabile la centralità storica del nostro territorio si rifanno al periodo di poco successivo alla fondazione greca della polis di Rhegion avvenuta poco dopo la metà dell'VIII secolo a.C. da genti calcidesi e messeniche. Infatti il geografo greco Strabone ci dice: “La città di Rhegion divenne poi assai potente ed ebbe sotto di sé parecchi altri centri; essa rappresentò sempre un avamposto fortificato nei confronti dell’isola [la Sicilia], sia anticamente sia anche ai nostri giorni, quando Sesto Pompeo indusse la Sicilia a ribellarsi”.

leucoUno dei centri che costellavano la città di Rhegion ai quali Strabone fa riferimento fu anche Leucopetra lungo la costa, situato, come detto, sul versante ionico nella grande chora reggina. Ma il geografo greco in un altro suo passo ci riferisce anche: “Chi naviga da Rhegion verso levante per una distanza di cinquanta stadi, trova quel promontorio che dal colore chiamano Leucopetra, col quale, dicono, finiscono gli Appennini”.

Occorre precisare che con il termine Leucopetra le fonti tendono anche a indicare non solo un villaggio posto sulla dorsale del promontorio di Capo D’Armi, ove i naviganti spesso si solevano fermare per aspettare il vento favorevole per riprendere i loro viaggi ma anche il vasto territorio inteso come porzione di spazio geografico di pertinenza della stessa falesia per il quale ricorre spesso tra le fonti stesse, la denominazione di Leucopetra Akroterion o di Leucopetra Promontorium.

Uno spazio territoriale compreso, nell’antichità, probabilmente tra la rada di Pellaro e il territorio di Saline, costituito da case sparse e un piccolo villaggio centrale, un chorion, identificato dal grande umanista reggino Gabriele Barrio proprio sul pianoro di Capo D’Armi, al cui ambito si accedeva percorrendo la strada costiera che partendo proprio da Rhegion costituiva il principale asse viario della zona, collegando in epoca magno-greca, la città con il versante meridionale della chora.

Dall’asse stradale costiero si giungeva al villaggio localizzato sul Capo D’Armi, lasciando la strada principale all’altezza della fraz. S. Elia e attraversando la fraz. Casalotto, fino a giungere alla fraz. Capo. Tale borgata, dal punto di vista urbanistico, doveva estendersi al di qua e al di là del promontorio stesso, interessando quindi gli attuali limiti territoriali della fraz. Capo di Riace, nel Comune di Motta San Giovanni, e della fraz. di Saline, nel Comune di Montebello Jonico.

Numerosi sono i dati archeologici-insediativi di resti ascrivibili all’età greca disseminati su questi territori, grazie ai quali è possibile oggi riuscire, anche se in modo parziale, a ricostruirne il quadro storico-insediativo.

L’esistenza di questo villaggio risulta dunque ampiamente documentata dalle fonti, le quali concordano tutte nel porre la cittadina di Leucopetra subito a sud di Rhegion collocandola, per chi giunge da sud, subito dopo Sileon, sito identificato oggi nella Vallata del S. Pasquale, presso Bova Marina.

Il centro della borgata, era quindi ubicato sulle alture che sovrastano a nord-ovest la Rocca di Capo D‘Armi e a sud-est l’attuale foce della fiumara Molaro II; era questo infatti l’unico punto di riparo dai venti contrari alla navigazione, soprattutto il libeccio, pericolosissimo anche per la navigazione di cabotaggio.

Relativamente alle strutture ascrivibili al periodo greco sicuramente vanno ricordati i due luoghi di culto, quello dello Stretto della Ferrina e quello localizzato sul Capo D’Armi, entrambi dedicati al culto di Demetra e della figlia Kore, rappresentanti due probabili temenoi, ovvero recinti consacrati alle due divinità dei culti agresti, attivi con ogni probabilità dall’età arcaica fino all’età ellenistica.

In località “La Cittadella”, sempre nell’ambito territoriale di Capo D’Armi, furono rinvenute le fondazioni di un edificio a pianta rettangolare in pietra scistosa di struttura greca, disseminato intorno di frammenti di vasi fittili grezzi o ricoperti di vernice nera.

In contrada Rungi furono individuati i resti di nove plinti di colonne in pietra arenaria, dalla posizione dei quali alcuni sembra delimitassero un piccolo atrio, circoscritto all’estremità orientale da un muro semicircolare; sempre nelle immediate vicinanze furono rinvenute inoltre numerose tombe ascrivibili al periodo ellenistico-romano costruite con grandi tegoloni laterali, il fondo in pietrisco e il tetto a cappuccina, accompagnate da uno scarso corredo funerario costituito per lo più da vasetti, patere e tronchi di piramide fittili.

Da un territorio limitrofo proviene invece un’ansa con bollatura rettangolare in caratteri greci e, sempre in riferimento al luogo di culto identificato sul Capo D’Armi, vanno menzionati una colonnina votiva in stile dorico e un cippo in calcare con un’iscrizione votiva dedicatoria alla divinità ascrivibile con certezza alla fine del V sec. a.C.

Dopo la segnalazione fornita dal Barrio, non supportata sfortunatamente da opportuni riferimenti, all’inizio del secolo scorso anche lo studioso reggino Domenico Carbone Grio riferisce che, nel corso di un suo sopralluogo sul pianoro di Capo D’Armi, si imbatté in alcuni resti di epoca greca, testimonianti elementi riferibili ai culti agresti.

Si tratta di indizi di non relativa importanza soprattutto se contestualizzati con le fasi storiche della polis di Rhegion e del suo territorio, proprio durante il periodo dionigiano che testimoniano sicuramente la presenza e la vitalità dei numerosi culti agresti.

È ragionevole pensare, sempre sulla base delle fonti, che si dovette trattare di un'area intensamente popolata, i cui abitanti erano pastori e abili agricoltori, oltre che marinai e bravi commercianti.

Con la morte di Agatocle tuttavia, la Magna Graecia aveva perso un valido difensore; la Siracusa post agatoclea da sola non poteva più reggere la sempre più debole grecità italiota. I Brettii invasero così la Magna Graecia, il tempo delle poleis magnogreche era ormai finito; Roma è alle porte dello Stretto.

Il primo dato utile relativamente all’età romana della storia di Leucopetra e del suo ambito territoriale, è costituito dal discorso di Marco Tullio Cicerone pronunciato davanti al Senato il 2 Settembre del 44 a.C. nel quale, in riferimento a Leucopetra, la indica come sede della villa del suo amico Publio Valerio e come importante statio di imbarco ubicata a sud di Reggio, connotando così una delle peculiarità storiche per il nostro paese e cioè il costante rapporto con il mare che vide proprio nel porto di Leucopetra il luogo adatto per gestire tutta una serie di operazioni militari e commerciali tanto in epoca greca quanto in epoca romana.

Ma dall’analisi dei dati, per lo più di carattere archeologico, appare evidente che tutto il territorio lazzarese e i centri vicini risultarono essere interessati durante l’età romana da importanti attività economico-commerciali che ne connotarono una rilevante vitalità. Infatti a Lazzaro nel corso degli anni Ottanta, in occasione dei lavori per la realizzazione di un nuovo tratto del nostro lungomare, poi interrotti, si rinvennero alcune strutture assolutamente afferibili a un impianto produttivo di anfore Keay LII datate con ogni probabilità al IV-V secolo.

E ancora nell’area dell’attuale fornace Cogliandro, nel corso dei lavori per la costruzione degli uffici, furono rinvenute fondazioni in ciottoli di fiume di strutture murarie con alzato in mattoni crudi e copertura a tegole, che rimandano ad un probabile insediamento per la produzione di ceramiche a bande rosse la cui datazione di riferimento potrebbe essere orientativamente compresa tra il VI e il VII sec.

Ma dal nostro territorio affiorano altre importanti tracce dell’epoca romana che dimostrano inequivocabilmente lo sviluppo economico, sociale e urbano del nostro paese. Testimonianze di età romana sono infatti, la presenza delle numerose ghiande missili in piombo con le iscrizioni nominative di Q. Salvidieno Rufo, luogotenente di Ottaviano e duce della X Legione Romana dello Stretto. Tale dato risulta essere notevolmente rilevante poiché dimostra ancora una volta l’esistenza di un approdo presso Leucopetra che fungeva anche da base logistico-operativa per tutta una serie di operazioni militari che si dovevano svolgere nelle acque antistanti lo Stretto.

Notizie relative alla X Legio Fretensis (dello Stretto quindi) e della sua presenza nelle acque antistanti le nostre coste ci sono state tramandate da Appiano e sono state ampiamente accertate da numerosi rinvenimenti archeologici che hanno interessato i territori sia calabri che siculi. La X Legio Fretensis fu una legione romana nata molto probabilmente nel 41/40 a.C. ad opera di Augusto per combattere in modo incisivo lo strapotere di Sesto Pompeo. I simboli di questa legione furono il toro, animale consacrato a Venere e la trireme romana.

Il quadro storico in questione è molto delicato; l’equilibrio che regnava a Roma nei periodi relativi alla data di nascita della Legio era ormai saltato. La situazione subì un decisivo aggravamento con la morte di Cesare nel 44 a.C.: a Roma fu un continuo verificarsi di colpi di scena.

Intanto nelle acque dello Stretto (Fretum) si stava combattendo una nuova guerra, l’ennesima guerra raccontata dalla storia, il Bellum Siculum, la Guerra Sicula, che vedeva contrapposti con stizza e determinazione, da un lato Cesare Ottaviano e dall’altro Sesto Pompeo.

La Sicilia era direttamente controllata dalle truppe di Sesto Pompeo, in Calabria invece era schierato e pronto a reagire l’esercito di Cesare Ottaviano coordinato dal suo luogotenente Salvidieno Rufo. Appiano quindi ci riferisce che tra il 42 e il 36 a.C. proprio nelle acque dello Stretto fu combattuta una cruenta battaglia.

Oggi, sulla base di nuovi studi e delle più recenti indagini archeologiche, possiamo circoscrivere lo spazio territoriale nel quale si svolsero tali avvenimenti tra l’imbocco nord dello Stretto nei pressi di Scilla e sul versante sud proprio l’area di Leucopetra. Infatti esaminando il passo dello storico romano apprendiamo che Ottaviano dopo la vittoria riportata sulle truppe di Sesto Pompeo nello scontro navale di Milazzo del 36 a.C., lasciato Scilascio sulla costa sicula, fece rotta verso Leucopetra dove sostò nel suo porto e ripartì poi alla volta di Tauromenio.

Dal punto di vista archeologico i dati storici sembrano trovare ampio riscontro che documenta tale avvenimento. Infatti proprio a Lazzaro nel 1882 furono rivenute alcune ghiande plumbee, cioè i proiettili che venivano lanciati con le grandi fionde. Tali rinvenimenti furono prima studiati dal Mommsen e successivamente dal Costabile che mise subito in evidenza alcuni dati notevolmente importanti: tre di queste ghiande riportavano su un lato l’effige del Fulmen Alatum e dall’altro la legenda Q(UINTUS) SAL(VIDIENUS) IM(PERATOR). Tra queste ghiande ve ne è una molto particolare poiché reca, come le altre tre, la legenda SAL(VIDIENUS) mentre sull’altro lato compare la marcatura L(EGIO) X.

Un ritrovamento simile a quello di Leucopetra si ebbe sulla sponda sicula nelle acque antistanti Siracusa, dove furono rinvenute due ghiande con dicitura analoga, segno tangibile che Salvidieno compì un’incursione navale anche nelle acque siracusane.

Leucopetra quindi si confermò essere ancora una volta un luogo adatto non solo per lo sviluppo economico-commerciale dei territori del Basso Ionio reggino, ma anche grazie alla presenza del suo porto naturale, la base logistica di importanti operazioni militari che si svolsero nelle acque dello Stretto antico.

In memoria del Bellum Siculum resta oggi anche una serie monetale che Pompeo fece battere per contribuire economicamente alle spese del conflitto. Tale moneta reca al D / la statua miracolosa di Poseidone, dio del mare, in primo piano posto sulla Colonna Reggina, mentre al R / Scilla, armata di timone, intenta a combattere contro un nemico invisibile cioè Ottaviano.

Altri rinvenimenti riferibili al periodo romano sono: un mattone rinvenuto nel 1757 e appartenente a una sepoltura, databile al IV sec. caratterizzato da iscrizione cristiana che costituisce sicuramente il rinvenimento più antico per il nostro territorio; un’urna cineraria in diaspro rinvenuta nel 1850 in un podere di proprietà della famiglia Ferrante poi passato in proprietà alla famiglia Calarco; una serie di lucerne, una delle quali caratterizzata dal simbolo della menorah, rinvenute in proprietà Crisarà nei pressi della Fiumara di S. Vincenzo che testimoniano anche una probabile presenza ebraica legata quasi certamente alle attività commerciali e una necropoli di epoca tardo-antica nella quale fu rinvenuto un titolo sepolcrale che un tale Crisogono, cittadino di Leucopetra, dedicò alla figlia Calista morta a soli sette anni. Sulla tomba era presente la seguente epigrafe:

D. M.
CALISTE VIXIT. AN
VII FECCRISO
GONVS PATE

E sempre di età romana sono le strutture, in parte visibili, nei fondi Lia e Nucera, nella parte terminale dell’attuale Corso Italia a Lazzaro riferibili a ruderi di una villa romana databili tra la media età imperiale e il VII sec. e infine tutta una serie di rinvenimenti sporadici di sepolture tombali provenienti da altre località prossime a Motta S. Giovanni risalenti per lo più all’età imperiale.

Una cospicua parte di questi reperti sono oggi custoditi presso le sale dell’Antiquarium di Lazzaro. Dall’analisi e dallo studio attento di tutti questi dati è possibile comprendere l’importanza di Leucopetra nel quadro degli insediamenti urbani antichi e tardo-antichi posti, insieme a Bova Marina, subito a sud di Reggio fino a tutto il primo Alto Medioevo e di quanto questi centri fossero estremamente attivi subendo inoltre i benefici effetti della floridezza e della vitalità che caratterizzò la città dello Stretto fino al VII sec. circa.

Ma la situazione urbanistica e insediativa del territorio di Leucopetra dovette subire, con assoluta certezza, profonde e radicali trasformazioni già a partire dal VIII sec. nel momento in cui i possedimenti bizantini, con esclusione della Sicilia, si erano considerevolmente ridotti territorialmente solo alla Calabria, ai territori pugliesi di Otranto e ad una fascia del litorale campano.

Con la caratteristica suddivisione in Impero d’Occidente e Impero d’Oriente e successivamente, con il crollo definitivo dell’Impero Romano d’Occidente avvento nel 476 d.C., Reggio e la Calabria meridionale in genere si trovarono a dover fare i conti con nuovi popoli e nuovi attacchi.

L’equilibrio conquistato nel corso dell’età romana fu così nuovamente messo in pericolo. La Caduta dell’Impero Romano d’Occidente determinò inoltre una fase di forte instabilità politica, economica e sociale che decretò il lento spopolamento dei centri costieri e il progressivo sviluppo dei centri d’altura.

Solo nel 536 d.C., nel momento in cui l’imperatore Giustiniano annesse la Calabria all’Impero Romano d’Oriente la vita sociale ed economica manifestò una buona ripresa. Si rivitalizzarono con una certa intensità gli scambi commerciali con l’Oriente e si manifestò anche una ripresa della vita culturale al punto che l’imperatore bizantino Leone III Isaurico nel 732 - 733 d.C. decise di aggregare alla chiesa greca tutti quei territori nei quali si ravvisava in modo evidente un elevato grado di acculturamento sociale con il resto del mondo bizantino.

E sempre tra il VI e il VII sec. d.C. il nostro territorio fu al centro di un intenso movimento migratorio di popolazione proveniente dall’Asia Minore che si riversò sulle nostre coste per scampare all’invasione Araba.

Numerosi monaci raggiunsero la Sicilia e la Calabria cominciando a diffondere il loro credo religioso, dedicandosi alla preghiera, alla vita ascetica e contemplativa. Questi monaci diffusero tra le masse popolari la cultura e la spiritualità bizantina, edificarono numerosi centri di cultura salvando così dalla distruzione codici, immagini sacre, opere d’arte, introdussero la coltura del gelso, l’allevamento del baco da seta e contribuirono alla ripresa economica di un territorio già culturalmente ricco.

Nel nostro territorio sotto l’impulso del rito greco-ortodosso nacque il Monastero di S. Giovanni Theologo nel quale vennero ricopiati alcuni importanti codici membranacei. Oltre al monastero del Theologo, tra il X e il XVI secolo, sorse anche sulle nostre alture un cospicuo numero di chiesette a navata unica alcune delle quali affrescate con dipinti di particolare rilievo iconografico.

Nel 920 la Sicilia cadde definitivamente nelle mani degli Arabi che attaccavano le popolazioni costiere con ferocia e determinazione. Le coste dell’estremo lembo della nostra regione furono quasi abbandonate; la poca gente ancora rimasta si era ormai rifugiata nei centri collinari dando così vita a insediamenti militari e di controllo territoriale.

È in questo particolare contesto storico che venne edificato il Kastro di S. Niceto, un baluardo militare a difesa dell’intera area Stretto nel quale risiedevano soldati della guarnigione lì di stanza con le loro famiglie e funzionari militari e che solo in caso di estrema necessità ospitava la locale popolazione.

Il castello, che tutt’oggi mostra il suo superbo fascino, è stato edificato su una collina dai ripidi versanti alle spalle del tratto di costa sopra il centro abitato di Pellaro con una cinta muraria di circa 648 mt. di lunghezza a dominio della vallata e dei territori circostanti.

Quale sia la data di esatta edificazione di questo strategico baluardo difensivo che ha giocato un ruolo assolutamente importante per questo territorio nel corso della storia medioevale purtroppo non è stato ancora possibile accertarlo ma secondo numerosi studi sembra che la fase costruttiva sia da ascriversi al periodo bizantino della prima metà dell’XI secolo in concomitanza con i sempre più continui attacchi arabi sulle coste sicule.

La sua intitolazione si rifà a San Niceto che fu un ammiraglio bizantino vissuto tra il 675 e il 741 al tempo dell’imperatore Leone l’Isaurico. È molto probabile quindi che ha seguito dei costanti attacchi arabi, possano essere stati profughi siciliani in fuga insieme a nuove truppe fatte giungere da Costantinopoli, a portarsi dietro, a seguito dell’invasione del IX secolo della Sicilia, il culto di San Niceto decidendo così di fondare un castron in questo territorio con lo scopo preciso di rafforzarlo e di fortificarlo intitolandolo a loro santo ammiraglio, Haghios Nikitas.

Vagliando gli sviluppi storici del primo medioevo, le notizie circa S. Niceto si fanno via, via sempre più frequenti; se ne fa espresso riferimento per ben tre volte nel Brebion-un elenco dei beni di proprietà della chiesa reggina redatto intorno al 1050 circa e successivamente in tutta una serie di atti notarili di età normanna e aragonese.

Santo Niceto per quanto attestato da questi atti controllava un territorio particolarmente vasto e strategicamente importante che andava dal torrente Valanidi alla fiumara Annà lungo la costa fino poi a raggiungere le cime aspromontane costituendo così nella prima età di Mezzo un baluardo strategico per il presidio dello Stretto a difesa del thema di Calabria.

Per tutta l’età medievale la baronia di Santo Niceto seguirà tutte le vicende tipiche del periodo storico: più volte infeudato, numerose volte ceduto, altre acquistato e passato di mano in mano.

Parlando del castron di Santo Niceto e dell’area ricadente sotto il suo controllo è opportuno fare un rapido accenno alle chiese presenti in questo territorio. Infatti, nell’area circostante la collina sulla cui cima si erge il castello, furono individuate una serie di chiesette tutte di epoca bizantina e in una di queste, situata proprio ai piedi della salita che conduce al portale del castello, denominata dell’Annunziata, è stato individuato sulle pareti dell’abside ormai crollato, visto lo stato di deplorevole incuria in cui versa, un affresco raffigurante un Cristo aureolato detto Pantocratore con ai suoi lati San Giovanni e una Madonna in preghiera.

Purtroppo ormai di quelle immagini non resta più nulla, solo vecchie foto riusciranno a conservare ciò che l’uomo non è riuscito a fare.

Il De Lorenzo ci fornisce anche la notizia di una chiesa all’interno della cinta muraria ben documentata nel corso di una serie di indagini archeologiche. Si tratta di chiese di culto bizantino perché l’area di Motta S. Giovanni rientra in quella fascia della diocesi di Reggio Calabria definita da tutti gli storici, greca, perché fino al XVII secolo inoltrato il rito praticato fu proprio quello greco con una naturale e ininterrotta continuità durante tutti i secoli.

Secondo la documentazione storica, Santo Niceto capitolò definitivamente nel 1465 nel corso delle sempre più frequenti diatribe fra reggini e abitanti delle motte che “attorniavano” la città di Reggio.

Tale arduo compito fu svolto dal duca di Calabria Alfonso che con il suo esercito misto di aragonesi e reggini, riuscì a occupare tutte le motte tranne la S. Agata che si affidò alla protezione papale.

Secondo la tradizione locale invece, S. Niceto fu occupato con un efficace stratagemma: nel cuore della notte i soldati assedianti radunarono su una vallata sottostante il castello un gregge di pecore legando alle loro corna piccoli rami di alberi accesi traendo così in inganno i soldati che si occupavano della difesa della fortezza che temendo un attacco dei nemici lasciarono sguarnito un lato del castello dal quale, grazie all’aiuto di un monaco traditore soprannominato Gabbadio che aprì il portale di accesso, i nemici penetrarono al suo interno assediandolo definitivamente.

Era l’autunno del 1465…

 

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