Lo Stretto di Messina

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Luogo di miti e leggende

 

Lo Stretto, quel piccolo e allo stesso tempo grande braccio di mare che con le sue acque a volte calme e silenti e altre agitate e minacciose, ha da sempre rappresentato un luogo magico che ha costantemente suscitato nell’immaginario collettivo la rievocazione di grandi miti e importanti leggende che sulle sue sponde hanno scandito, con ritmo costante calmo e silenzioso, lo scorrere dei millenni, il susseguirsi, l’una dietro l’altra, delle grandi e importanti civiltà. E poi il susseguirsi delle varie dominazioni, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi hanno lasciato tracce indissolubili nella cultura e nella società di questa “terra” baciata dal sole e intrisa del canto melodioso delle onde marine… E’ uno scenario aperto al cielo, proiettato sull’infinito dove mare e terra sembrano sfiorarsi in magici giochi di luce e ammalianti visioni.

Tra i primi miti da ricordare sicuramente vi è quello, sul quale numerosi storici antichi concordano, dell’attribuire ad Aschenez pronipote di Noè la fondazione della città di Reggio il quale sarebbe giunto sulle nostre sponde intorno al 2000 a. C. e dal quale la regione avrebbe prese poi il nome di Aschenazia.

Altre leggende, sempre sorte sulle sponde dello Stretto, rievocano il mito di Jocasto, figlio di Eolo, mitico re dei venti, che dopo essere giunto nei nostri territori, trovò la morte a causa di un morso di serpente e sulla cui tomba, ubicata sempre secondo la leggenda sull’antico Pallantiòn, sarebbe sorto il primo nucleo insediativo di quella grande polis che nel tempo successivo sarebbe diventata Rhegion.

Un’altra leggenda invece ricollegava direttamente le celebri origini della città al passaggio di Eracle proveniente dalla penisola iberica con i buoi di Gerione. Il mito di Eracle contribuisce, per la sua importanza, in modo determinante nella fissazione dei confini territoriali della stessa chòra reggina a partire fin dal VI sec. a.C. Infatti il rinvenimento di una laminetta bronzea dedicata proprio a Eracle rinvenuta nel territorio dell’odierna Castellace di Oppido testimonia in modo inequivocabile come quel territorio facesse parte integrante della chòra reggina. Lo stesso mito è anche fervido sul versante meridionale, nell’area dell’attuale Bovesia dove, sempre secondo la leggenda, Eracle dopo aver rincorso un toro staccatosi dal resto del branco si fermò a riposare sulla sponda sinistra del fiume Halèx ma fu risvegliato dal suo sonno dal canto delle cicale; a quel punto rivoltosi agli dei, ottenne che le cicale diventassero mute. Il fiume Halèx di cui si parla nel mito è sicuramente la fiumara di Palizzi identificata oggi quale limite territoriale meridionale della chòra di Rhegion.

Ma tutta la storia delle genti dello Stretto è, e sarà sempre indissolubilmente legata al mare; a quello splendido mare, dal quale numerose volte giunsero i segni premonitori delle grandi civiltà. Non poteva perciò mancare il mito del grande Poseidone, signore del mare. Un tempio adibito alla venerazione di Poseidone e noto come Poseidonio, doveva sorgere immediatamente fuori il nucleo urbano di Rhegion nell’area dell’attuale Cannitello nei pressi della Colonna Reggina nelle vicinanze della quale vi era un’alta torre sulla quale si erigeva la statua dello stesso dio del mare a difesa dello Stretto e di tutti i naviganti. La “statua dello Stretto” dedicata a Poseidone ha una duplice simbologia: da un lato rappresenta il faro, la luce sullo Stretto, dall’altra rappresenta l’acqua per il rifornimento delle navi.

E sempre riconnesso al mare è il mito di Glauco, giovane pescatore che viveva nella dirimpettaia città di Messina nel IV sec. a.C. Glauco era solito andare a pescare nelle acque dello Stretto ed era molto noto per la sua grande abilità di pescatore; le sue reti erano sempre cariche di pesce e riusciva a sfuggire con altrettanta abilità al melodioso e irresistibile canto delle sirene. Un giorno Glauco al ritorno dalla sua pesca decise di scaricare le reti in un luogo differente dal solito, su di un prato particolarmente erboso, e si accorse che i pesci al contatto con l’erba ritornavano in vita e guizzanti raggiungevano di nuovo il mare. Allora Glauco pensò che quell’erba possedesse dei poteri magici, ne staccò un ciuffo e iniziò a masticarla; man mano che Glauco masticava quell’erba, il suo corpo progressivamente si trasformava: le sue gambe diventarono una possente coda, il suo corpo si ricoprì di squame e le sue braccia diventarono pinne; Glauco era diventato un pesce ammaliato per sempre dal canto delle sirene.

Sempre nel corso del IV sec. a.C. abitava nella penisola falcata di Messina la ninfa Pelorias legata al culto della città di Zancle. E’ stato merito dell’archeologo Paolo Orsi l’aver riscoperto con i suoi studi questo fantastico mito legato alle acque dello Stretto altrimenti andato perduto per sempre. Fortemente legato allo Stretto è anche il culto di Orione personaggio mitologico greco giunto sulle sponde del nostro mare intorno al 1270 a. C. insieme ai primi coloni fondatori di Zancle. La presenza di tale culto è ampiamente documentata da alcune serie monetali battute nei primi decenni del V sec. a. C. recanti le famose “lepri dello Stretto”.

Di origine greca è anche il culto di Crono identificato successivamente dai romani con Saturno. Secondo l’antica leggenda Crono avrebbe edificato il porto della città di Messina denominata Zancle a ricordo di una falce che egli portava sempre con se. Con quella falce, la tradizione mitologica racconta che Crono avesse evirato il padre affinché potesse succedergli esclusivamente lui in ordine dinastico nel mondo. Crono però dopo essersi pentito della sua azione, in preda al rimorso e allo sgomento gettò tale falce nelle acque dello Stretto dando così origine al porto naturale di Messina.

Tra i miti ricchi di forte significato emotivo e cariche di grande valore umano vi è il mito di Egi il tuffatore. Il mito di Egi è ambientato nello Stretto del IV sec. a. C. e più nello specifico durante gli anni della dominazione di Dionigi il Giovane a Siracusa. Infatti il tiranno siracusano aveva sentito parlare della terribile fama del grande gorgo limaccioso denominato Cariddi che abitava proprio le acque dello Stretto. Particolarmente incuriosito decise di recarsi con la sua corte a vedere i vortici originati da questo grande gorgo. Giunto sulla sponda sicula decise di sfidare i popolani che si erano recati ad omaggiarlo gettando in mare una bellissima e pregevolissima coppa dorata offrendo in sposa la figlia Xantia a chi avesse sfidato i vortici e il terribile gorgo recuperando la coppa. Nessuno si fece avanti e quando Dionigi aveva voltato ormai le spalle ordinando alla sua corte di ripartire alla volta di Siracusa un piccolo giovane, Egi, si scagliò in mare affrontando le terribili onde e i grandi risucchi causati dai vortici. Egi scomparve tra le onde, inghiottito da quel mare urlante di bufera, ma proprio quando ormai nessuno sperava di rivederlo riapparire, ricomparve tra i flutti con la coppa saldamente tenuta tra i denti; risalì la scogliera e posò la coppa ai piedi del tiranno siracusano. Dionisio chiese a questo punto se per amore della figlia volesse riprovare ancora, Egi riaffrontò i terribili vortici causati da Cariddi, ma questa volta non riapparve più tra i flutti inghiottito per sempre dal terribile gorgo marino.

E sicuramente parlando di Cariddi e di Egi non si può fare a meno di parlare del grande mito di Scilla e Cariddi di omerica memoria. Scilla secondo la mitologia era una meravigliosa ninfa marina della quale Glauco il pescatore ne era follemente innamorato avendo inoltre disdegnato le attenzioni della maga Circe. Infatti quest’ultima, per vendicare il suo amore non corrisposto decise di avvelenare la fonte dove Scilla beveva trasformandola in un famelico mostro marino a sei teste che fagocitava tutti coloro che attratti dai canti di splendide sirene si avventuravano incautamente nelle acque dello Stretto. Cariddi era invece l’altro grande mostro situato quasi di fronte a Scilla sulla sponda sicula. Secondo la tradizione mitologica questo gorgo ogni sei ore ingurgitava e rigettava onde nere e frammenti di legname, resti di imbarcazioni, che egli risucchiava costantemente. La tradizione racconta che il suo nome deriva da quello della fanciulla che rubò i buoi di Gerione a Ercole il quale si rivolse a Zeus padre degli dei per punirla. Zeus la punì fulminandola e facendola cadere a picco proprio nelle acque del nostro mare aprendo così una voragine.

Ma sicuramente tra i tanti miti riguardanti l’area dello Stretto forse il più noto e maggiormente conosciuto è quello della Fata Morgana, una dolce e gentile fata che secondo la leggenda abitava in un bellissimo castello negli abissi delle acque dello Stretto. La leggenda racconta che un giorno dal tempo sereno dell’anno 1060, il Gran Conte Ruggero D’Altavilla passeggiasse sulla costa calabrese delle due sponde pensando e ripensando a come dovesse fare per liberare la Sicilia dall’oppressione musulmana quando all’improvviso vide emergere dalle acque una bellissima fata, Morgana, che si apprestava a salire su una carrozza trainata da sette bellissimi cavalli bianchi. La fata quando si accorse che il Gran Conte la stava osservando gli si avvicinò invitandolo a salire con lei sul cocchio e offrendogli il suo aiuto nell’impresa, ma il Gran Conte, uomo valoroso e di grandi virtù morali, rifiutò dicendo che con l’aiuto dei Santi e della Madonna sarebbe riuscito a scacciare i musulmani dall’isola. La fata allora agitò nell’aria silente e quieta la sua bacchetta magica e scagliò tre sassi in acqua e proprio nel punto in cui i sassi caddero apparvero palazzi, case, alberi e giardini come se l’isola si fosse magicamente avvicinata alla costa calabra quasi da essere raggiunta con un semplice salto. Chi ha avuto la fortuna di vedere questo particolare fenomeno ottico-visivo denominato quindi Fata Morgana che si verifica solo in determinate condizioni meteo, ha proprio l’impressione che le case dei paesi della sponda sicula giungano quasi a lambire le spiagge della costa calabra. Di questo fenomeno nell’antichità ne furono anche testimoni Aristotele, Policleto e Cornelio Agrippa.

Ma alla mitologia e alle leggende che hanno caratterizzato la cultura delle genti dello Stretto appartengono anche i Santi che da sempre hanno avuto un’importanza ben radicata nell’interesse collettivo.

E parlando di santi non si può fare assolutamente a meno di parlare di S. Francesco di Paola. Era l’anno 1464 e Francesco era in cammino lungo la costa calabra per raggiungere la città di Milazzo dove era stato convocato da autorevoli personaggi locali. Giunto all’altezza di Catona, non molto lontano da lui era approdata una nave pronta a salpare alla volta dell’isola; Francesco si avvicinò al proprietario e inutilmente chiese un passaggio. Francesco a quel punto si tolse il suo mantello, lo adagiò sull’acqua misteriosamente incendiata e in un attimo da mantello cencioso si trasformò in nave munita di vela e il santo riuscì insieme ad altri due confratelli ad attraversare lo Stretto.

E sempre legato al mare e ai suggestivi paesaggi del nostro Stretto è il mito di Colapesce un personaggio citato anche da autorevoli fonti letterarie italiane ed europee. Colapesce secondo le fonti letterarie duecentesche era un pescatore messinese vissuto nel XIII° sec. Salimbene de Adam ci racconta che un giorno l’imperatore Federico di Svevia mentre si trovava in transito con tutta la sua corte proprio nelle acque dello Stretto, essendo venuto a conoscenza della fama di quest’uomo che viveva come un pesce, gli ordinò di gettarsi nei fondali marini per raccogliere una splendida coppa in oro da lui lanciata poco prima. Colapesce si tuffò e recuperò molto abilmente tale coppa. Federico allora la rilanciò in mare ordinando nuovamente a Colapesce di recuperarla; Colapesce tuffatosi nuovamente in mare recuperò la coppa per la seconda volta. L’imperatore Federico la rigettò ancora una volta, ma in un punto differente dai primi due; Colapesce si rituffò per la terza volta ma non face più ritorno in superficie. Qualche tempo dopo qualcuno raccontò che nel recuperare la coppa lanciata dall’imperatore per la terza volta, Colapesce si accorse che una delle tre colonne sulle quali si racconta poggi l’isola stava cedendo. La tradizione racconta che Colapesce è ancora oggi lì, sotto Capo Peloro a reggere la Sicilia dallo sprofondamento.

Sempre nell’ambito delle tradizioni e delle leggende che animano da sempre la cultura e la civiltà dello Stretto sicuramente merita di essere ricordata quella di Mata e Grifone celebrata a Messina in occasione della festa della Madonna della Lettera e in Calabria nella zona della Piana di Gioia Tauro e in provincia di Vibo Valentia. Varie e altrettanto affascinanti sono le teorie circa questa leggenda che ormai da tempo immemore anima la memoria civile delle genti dello Stretto. Quella ritenuta sicuramente più attenibile risale al 1190 quando, dopo aver attraversato lo Stretto, giunse in Sicilia Riccardo I d’Inghilterra più noto alle cronache storiche come Riccardo Cuor di Leone con l’intento di muovere da Messina la III crociata. Durante la sua permanenza in città però si accorse dell’opprimente peso esercitato dall’occupazione bizantina e perciò decise di intervenire facendo costruire sul colle di Roccaguelfania un grandissimo castello. Subito dopo la rapida edificazione, i messinesi lo adottarono con il nome di Matagriffon da Mata=Macta=ammazza e Griffon=Grifone=Ladro. I bizantini compresero subito l’entità del messaggio e abbandonarono definitivamente la città. Il mito quindi della ritrovata libertà ben presto spopolò anche sulle sponde calabre che ugualmente avevano pesantemente subito l’assedio di Bizantini e Saraceni e Mata e Grifone ben presto diventarono i due miti, i due emblemi da imitare e inseguire per raggiungere la libertà.

 

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